L’atelier è nella centralissima Via Verdi al numero 2. Abbiamo appuntamento con Ivano Berlendis, emergente artista bergamasco, vincitore della sezione di pittura del Premio Arte nel 2000 su tremila partecipanti con “La bella vita dell’aviatore”, omaggio all’abilità di disegnatore del padre. Classe 1958, ma non li dimostra, con quell’aria di ragazzo, che sembra essere sempre sul punto di sparire, alla ricerca di immagini e di sensazioni da trasmettere.
Figurativo, materico, dal preciso segno grafico che ha lasciato presto l’impostazione accademica ricevuta al suo avvio scolastico, violento perché senza infingimenti e preziosismi virtuosistici, diretto come lo sanno essere le luci radenti usate per fare emergere dal buio i corpi e i volti bellissimi di modelle con l’anima, disarmante perché volutamente giocato sui bianchi e sui neri quasi fosse ogni volta una sorta di confessione sottovoce tra bios e thanatos. Questo è il suo fare pittura, attraverso il quale esprimere il piacere di dare voce alla propria voglia di creare e a quella istintuale, incredibile predisposizione al disegno, di cui ci parla quasi con un pudore alieno al mondo spesso altisonante dellArte.
La consapevolezza di una bravura che emerge immediatamente, anche al profano, è lo stimolo che all’inizio lo sprona a continuare a dipingere, con il sogno di poter vedere un giorno le sue opere apprezzate e riconosciute da un pubblico sempre più vasto.
Opere che vorrebbe si mantenessero nel tempo… Da qui la scelta di utilizzare, come base, il cemento grezzo spatolato sulla tela, e l’acrilico, che nega la trasparenza delle velature imponendo tecnicamente solo la contrapposizione tonale, ricercata e realizzata attraverso i colori freddi e l’amato nero. Schivo come lo possono essere coloro che vantano una simile capacità tecnica e che hanno ancora qualcosa da dire sottovoce in un mondo in cui si urla, il Berlendis predilige il lavoro in singolo. Forse anche per la particolare visione bidimensionale delle cose, che gli deriva da un problema all’occhio sinistro e che gli altri suoi colleghi non possiedono. Perciò poche, pochissime, le collettive che lo hanno annoverato tra gli espositori, perseguendo la scelta di essere un artista a tutto tondo, visto che realizza anche le cornici dei suoi quadri… “Dal primo tocco di pennello all’ultimo graffio con il temperino, sono io che intervengo sulla mia opera” ci dice il pittore stesso, rivelandoci la scelta del graffito quale tocco originale e definitivo per firmare la tela. Il motivo? Il bisogno di dare al dipinto il senso di usato, di vissuto, come se sottolineasse di essere parte integrante dello scorrere del tempo che, con la sua presenza, tende ad esorcizzare.
Le molteplici esperienze lavorative in campo grafico, tecnico per la Acerbis, e curiosamente anche cosmetico, attraverso la collaborazione con Diego Dalla Palma per il maquillage creativo, si sommano agli interessi per i racconti gialli americani e i thriller, per la musica rhytm & soul ascoltata quasi sempre in vinile, per i viaggi all’estero che hanno costellato gli anni della formazione e della crescita: una vita sentita sulla pelle e respirata lungo le strade e attraverso le tante sfaccettature con cui si è presentata, ma comunque sempre alla ricerca di un’adesione totale al piacere di disegnare e di dipingere.
Nessuna ambizione? Non proprio: il sogno in un cassetto è quello americano… Visitare gli States per viverne odori, sapori, immagini che nelle opere dell’ultimo periodo si catalizzano intorno alle forme morbide ed opulente delle automobili Anni Cinquanta – altra passione dopo le moto -, già a ruba tra gli estimatori che conoscono il pittore attraverso il silenzioso e discreto passaparola, per poi fare bella mostra di sé alle pareti di dimore da mille e una notte. Perché i suoi sono quadri senza tempo, che riecheggiano influenze post-moderne, ma che hanno anche un forte impatto emotivo, perché procedono per contrasti materici e cromatici, perché rifuggono la retorica e sono, soprattutto, espressione della luce reale e viva, davanti alla quale la tela si riempie di campiture e di immagini.
Sono quadri che s’impongono anche per le loro dimensioni piuttosto ragguardevoli, che affidano i loro volti e lé loro forme stirate verso l’alto, alle tele incorniciate da un semplice bordo di ferro scarnificato e non trattato, perché deve ossidarsi ed invecchiare con la tela, quasi che i due fossero una vecchia coppia di amanti dove la personalità di uno arriva a confondersi e a diventare quella dell’altro a cui è intimamente unito.
Superfluo cercare di individuarvi le contaminazioni dotte e i maestri di riferimento. Siamo, piuttosto, di fronte ad uno sperimentatore e ad un artista omnivoro, sedotto, di volta in volta, dai segni oscuri di lingue ormai perdute, dalle ombre innaturali che non danno volume ma delineano, dall’opposizione tra i materiali come la morbida grafite e il duro cemento, tra i colori ripudiati perché invasivi e non puliti su linee nitide. Uno solo, su tutti, è citato:
Giacometti e il suo tratto, ma qualche riferimento va anche al più moderno Galviani e ai grandi della fotografia, per quella predilezione al bianco e nero che li accomuna. Ci siamo conosciuti davanti al ritratto di una splendida donna dai profondi occhi che parlano di tempi e di mondi lontani, e ci accomiatiamo davanti ad una Tucker magenta, che sta prendendo forma sullo sfondo nero di un’autostrada. Ieri e oggi di un artista in ascesa, con il futuro rivolto al passato, a quel figurativo che, attraverso la grandezza dei suoi migliori adepti, ha ancora molte suggestioni da offrire.